“PERIFERIE METICCE”- FARE ACCOGLIENZA E CULTURA INSIEME

“PERIFERIE METICCE”- FARE ACCOGLIENZA E CULTURA INSIEME

di Davide Rosso Direttore FCcv

La proiezione di un docufilm, “Periferie meticce. Riformare lo spirito dell’accoglienza(lo si può vedere su https://www.youtube.com/watch?v=k_OjSiFQ3zg), e un incontro sui modelli culturali di integrazione. Questo il programma del pomeriggio organizzato dalla Società Geografica Italiana in collaborazione con la Fondazione Centro culturale valdese tenutosi martedì 25 ottobre a Roma.

In questo momento particolare del nostro vivere nel mondo tra le questioni all’ordine del giorno ve ne è una che è centrale: se infatti il tema di “Periferie meticce” è le migrazioni, sullo sfondo c’è quanto il nostro essere occidentali, figli di quella cultura che ha avuto l’Europa “protagonista” per secoli, continui a influenzare il nostro modo di essere nel mondo.

Se è facile infatti liquidare con poche frasi, o con l’oblio, il periodo coloniale ci sono però domande che sono scomode. Una di queste è stata posta in settembre a Karlsruhe, in Germania, in uno degli incontri “off” del programma dei lavori del World concil of churches ed era: “ma gli aiuti umanitari delle chiese sono neo-coloniali?” Il settimanale Reforme ha dato spazio all’evento riportando come questo abbia coinvolto molte persone e fatto riflettere.

Il punto di partenza ovviamente è che cosa significa neocoloniale. Per quel che mi riguarda come direttore di un museo è un tema che anima il dibattito culturale legato alla memoria e alla sua esposizione. A Karlsruhe peraltro Dionne Gravesande, dell’Ong britannica Christian Aid fondata dalle chiese dopo la seconda guerra mondiale per accogliere i rifugiati, neocoloniale sinifica: “il mantenimento di un quadro e di strutture che perpetuano delle situazioni di ineguaglianza”.

Culturalmente il neo colonialismo passa attraverso questioni, e cose, che ci riguardano quotidianamente: dalla scelta del vocabolario, al guardare certi oggetti, al metodo di lavoro. Spesso non si tratta di scelte coscienti, semplicemente fanno parte della tradizione. “Per quel che riguarda gli aiuti umanitari risiede nel modo in cui è generalmente ripartito. I beneficiari dell’aiuto sul piano locale possono essere in una situazione di dipendenza, non hanno spazio per sviluppare le loro azioni”. Per quel che riguarda la narrazione della nostra cultura significa porre il racconto dal punto di vista di chi presenta la narrazione, non far parlare l’altro ma raccontarlo, o guardarlo invece che sentirlo come ci dice Giulia Grechi antropologa che si occupa di studi culturali e post/de-coloniali, migrazioni e museologia.

Quale soluzione può esserci? Diverse le strade, e i Corridoi umanitari probabilmente sono uno di queste. A Karlsruhe in generale si è parlato di come ripensare i termini degli aiuti, di lavorare sistematicamente in maniera interculturale e interreligiosa, di cominciare a dare fiducia alle comunità che ricevono gli aiuti.

Dal punto di vista culturale si tratta di ripensare gli approcci e il rapporto con gli oggetti delle nostre collezioni siano provenienti da paesi non europei siano dal territorio in cui viviamo e su queste tematiche ci si è interrogati anche nel corso di un incontro tenutosi il 6 ottobre all’Accademia delle scienze di Torino fra musei e realtà che ragionano sul patrimonio nell’area piemontese.

Si tratta comunque di questioni scomode, che riguardano tutti e che spesso hanno portato all’oblio di certa parte di memoria. Un docufilm come quello presentato a Roma può aiutare a porre chiarezza. Sullo schermo appaiono persone che dialogano, che parlano di ascolto e di sostegno, di processi di integrazione tentata e di momenti di incontro con l’altro che porta con se una sua cultura e una sua visione di noi. Già perché anche qui sta la questione: come l’altro vede noi e quanto il suo guardarci è influenzato da secoli di colonialismo. I modelli di accoglienza e di aiuto devono fare i conti con queste dinamiche: hanno provato a dirselo e ad avviare la riflessione i partecipanti all’incontro di Karlruhe e lo hanno fatto le persone delle chiese valdesi e non solo che sono state coinvolte nei processi di accoglienza dei cileni negli anni 70 e dei corridoi umanitari oggi. Il docufilm prova a farle parlare.

Le persone talvolta sono come delle isole, la questione è quale isola. Questa, come dice il semiologo Franciscu Sedda, può essere un luogo chiuso da cui guardare all’altro oppure un arcipelago che ha un’identità che lega diverse isole separate. Oppure può essere un luogo a cui si guarda e a cui si da significato. Queste dinamiche sono quelle che ci coinvolgono e sono quelle che danno senso al nostro essere nel mondo.